L'Atelier LiberaMente è uno spazio aperto, nella misura in cui va consolidando il suo pensiero e la sua pratica. Un blog permetterà di estendere l'area comunicativa, un "drama" allargato delle idee e delle competenze. Director, E. Gioacchini







venerdì 14 maggio 2010

Drammaterapia: l'Inganno della Libertà (parte prima)


@ Director

La Libertà possiede in sè un granne inganno, ma di esso vive, proprio esso la crea. Mi spiego...Questo termine racchiude un concetto che ridefinisce il nostro rapporto con il mondo, o con noi stessi, rispetto ad un altro, la prigionia, la reclusione, il controllo, l'immobilizzazione, in poche parole, la limitazione di una nostro modo di essere, di pensare, di agire. Questa radice contrappositiva da cui il bisogno e quindi il concetto di "libertà" nasce, resta dentro allo stesso, come il ricordo di addensamenti nuvolosi, dopo i quali un raggio di sole riesce tuttavia a squarciare il cielo e fare luce e che vorremmo trattenere sempre a fugare il temporale. Nella prigione vi è penombra, se non buio, e fuori di essa c'è, agognata, la luce; come nella "fuga" non si può non sotttintendere "da cosa...".
Non si parla di "libertà", quindi se non perchè vi è una limitazione da superare, sconfiggere, annullare...ed insieme, non si parla di libertà se non rispetto ad un rapporto con il mondo, anche se esso può essere la relazione introiettata con esso, che si maschera di noi (il mio limite) e vissuta internamente: non mi sento libero dentro, sono bloccato, non riesco ad esprimermi, ecc. ecc.
Talmente è fondamentale questa riflessione, che poi viene scontata nella dimensione del vivere quotidiano, sia che vi siano "mulini a vento" veri da combattere o siano le nostre illusioni. Il mondo e noi stessi diventiamo ostacolo alla emancipazione verso una condizione libera, che tuttavia lascia inevasa la identificazione in che cosa essa consista. Che il limite lo si avverta dentro di noi o lo si proietti massicciamente fuori, poco importa; in questo, infatti, la mente inconscia non fa differenze e costruisce comunque una frustrazione al nostro Es. A volte fa comondo trovare un persecutore fuori, che vi sia o meno; in altre occasioni ci si ripiega a responsabilizzare noi stessi di non aver il coraggio di essere liberi.
Come in altre occasioni su queste pagine e quelle del Creative Drama In-Out Theatre ho spiegato, solo la condizione di autocoscienza dell'essere (evoluta così come la conosciamo nell'uomo) impedisce al cane di sentirsi "sfigato", inseguito da un destino, di picchiarsi da solo per senso di colpa; o, al contrario, di esultare, osservando gli altri, mogi e depressi e invidiosi, per la vincità di un osso, indipendente dalla sua abilità, ma solo casuale. Essere liberi da, essere liberi di..., essere.
Erich From parla di questo nella sua distinzione tra l'essere e l'avere: se si spoglia -dico io da un altra angolatura, con un occhio alle sue parole- la nostra presenza dal possesso, dall'avere, si arriva all'essenza dei quella soggettività che può scegliere di declinarsi, come e con cosa, ma che non si identificherà mai con ciò che possediamo e tuttavia il nostro posseduto sintetizza la storia di chi siamo. Non è la libertà il vero problema, la causa della nostra infelicità, di quel sentimento di contrizione che ci fa fragili, tapini, così mortificati e senza potere sulle cose, ma piuttosto come noi abbiamo costruito il nostro concetto di libertà, partendo dalla negazione di noi stessi subita da altri, determinata dagli eventi, dunque nel rapporto con il modo.
Osservate la foto -è vero, elaborata graficamente, ma solo a volerne sottolineare alcuni aspetti. Il personaggio, Libertà nella fattispecie, è solo in mezzo agli altri: la sfocatura della sua presenza vuole indicare la maggior relativa nitidezza degli altri intorno come co-presenti, ma distanti da lui. Egli si sta muovendo, forse anche gli altri, ma comunque in modo diverso, se degli altri, tutti, l'obiettivo ha colto il sorriso. Egli è liberò? Mi chiederete ragionevolmente: rispetto a che cosa...Diciamo...se egli dovesse accorgersi improvvisamente di un moto diverso dagli altri, da un'espressione diversa dalla propria sul volto dei compagni, probabilmente resterebbe perplesso e forse desideroso di sentirsi terribilmente "imprigionato" nell' "essere comune" di tutti loro, dai quali si era per un momento "liberato" pensando a se stesso. Potrebbe essere un bene, potrebbe essere un limite. Quante volte costruiamo la nostra prigione, conformandoci? Quante volte la nostra prigione è l'evasione dal modo conforme di essere? Appunto, lo dicevamo, è il "modo" in cui il soggetto apprende ad essere -meglio sarebbe dire "sentirsi"- libero, piuttosto che nel luogo dove andare, quello dal quale allontanarsi. Ben venga un pregiudizio, se salva una persona senza un percorso di crescita personale dalla voragine della "libertà". Ma sia benedetto anche lo spazzare la piazza dei nostri affetti, dalle piccole apparentemente innocue paure che fanno cristallizzare destini ingrati.

1 commento:

  1. Concordo director, più passa il tempo più me ne rendo conto. Più grande e più forte è il desiderio di libertà, maggiore è il senso di prigionia da cui cerchiamo di fuggire, perché al di là del muro c'è un mondo che può incuriosirci o spaventarci, ma il muro lo innalziamo noi. E siamo liberi, forse, solo accettando i nostri limiti. Nero

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