L'Atelier LiberaMente è uno spazio aperto, nella misura in cui va consolidando il suo pensiero e la sua pratica. Un blog permetterà di estendere l'area comunicativa, un "drama" allargato delle idee e delle competenze. Director, E. Gioacchini







domenica 27 febbraio 2011

La vicenda di Yara, il mostro intorno-dentro di noi

Dramatherapy, Figuring out the Dreams
@ director
Tragico ritrovamento quello di Yara, una scoperta che non porterà alcun beneficio a questa ragazzina in attesa della realizzazione dei propri sogni. Una scoperta ancora una volta cruda per le nostre coscienze, che invece potrebbe lavorare e portare a qualche progresso, a patto di …farla lavorare dentro. E in questo, in fondo, consiste la vera “evoluzione” della specie. Yara amava il movimento che supera i limiti della gravità, quello che unisce i gesti e l’educazione che vi è dietro alle espressione del sogno e dell’arte, che vuole elevare lo spirito, oltre che il corpo. Il volo più ardito per lei è stato terribile, ingiusto, inaspettato.

Tra novembre e dicembre, nel pieno della lavorazione del nostro Barbablù (Blue Beard, To Want, To Need, To Be), insieme a questo nostro gruppo ebbi molte perplessità riguardo la realizzazione della pièce teatrale. Il teatro della vita, con l’angosciante recente vicenda di Sara Scazzi e poi la scomparsa di Yara, superava tragicamente quello che si svolgeva nelle nostre prove. Ne parlammo più volte. La vicenda “artistica” ricalcava troppo quanto di reale e drammatico stava avvenendo nella cronaca di quei giorni: il sospetto del mostro intorno-dentro a noi. Poi, si decise che, in un teatro “totale”, come definisco quello che dirigo, era necessario che anche la storia di queste due ragazze lavorasse dentro il gruppo. Silenziosamente, senza bollettini di notizie o voyeuristici richiami alle storie vere, ma con l’aiuto del processo drammaterapico in atto. Per chi, come me, si è sempre interessato di criminologia per lavoro e per studio, non si trattava di entrare nella scena del crimine, ma di viverne i significati insieme al mio gruppo di attori, di persone intime. E Barbablù è stato rappresentato.

Una persona, qualche giorno fa mi parlava di un differente sogno infranto. Le sue scarpette di danza, ferme da sempre nella mente-cassetto della memoria ad aspettare di essere indossate, a leggere con lei la silenziosa delusione di non essere compresi, almeno in quella cosa. Non sfugge a me, come a voi, la ovvia differenza di gravità degli eventi, ma non di importanza. La vita di questa persona, da allora in poi si spogliò non solo di scarpette mai indossate, ma del coraggio, dell’autonomia, ed in molta parte della credibilità in se stessa. L’importanza delle cose non risiede solo in quanto è visibile, dichiarato, raccontato a noi sulle pagine di un giornale o reso “vero” dalle testimonianze. Il “tribunale” dei nostri affetti, quello che dispensa sensi di colpa e perdoni, punizioni e premi, parcheggia in una mente molto più vasta di quanto può essere contenuto nella scatola cranica di un individuo. La coscienza collettiva toglie e regala importanza alle cose, come alle mode, spesso sull’onda del fragore della notizia o dello share di ascolto, oppure, come in questi giorni, deve riuscire a “comprendere” quanto accade, anche in assenza di rumori o rumors, in una terra vicinissima al nostro Paese, la Libia. Una delle prime lezioni che insegna la criminologia di ogni latitudine è che dietro un vittima, come forse per la piccola Yara, vi è sempre la nozione di trovarsi “nel posto sbagliato nel momento sbagliato” (e di converso terribilmente giusti per l’omicida). Coordinate di tempo e luogo, però, non si riferiscono solo ad orari e posti, ma alla più vasta dimensione del collettivo che è cosciente, solidale, empatico al suo interno, che sorveglia senza sorvegliare, che protegge senza far guerre, che sostiene senza esplicita richiesta. Questo è il significato dell’empatia, della testimonianza della vita sociale quando accoglie e supera in confini limitati delle proprie paure.

giovedì 24 febbraio 2011

Da LiberaMente a DramaticaMente Teatro, sempre!


Cari attori, cari compagni di viaggio, dedico questa foto (ed il videoclip appena pubblicato) al percorso che abbiamo fatto, a tutti, senza esclusione di colpi e persone...Viaggio eretico, se l'ortodossia suggerisce l'inchino al potente, al lezioso, al camuffamento delle storie e della Storia. Il teatro smaschera, come la storia ed in fondo è figlio di questa. Il narcisimo dei potenti si piega (lo vediamo in questi giorni di conflitti e tragedie vicino ai nostri "confini"), solo apparentemente senza lacrime, alla giustizia della vita civile, dove non basta il rispetto, se non vi è amore. E quest'ultimo è intercorso, con gli abiti di scena o nella prove prima delle rappresentazioni, con l'ansia preziosa dello spettacolo, quello fuori e quello dentro.
Ho preso quattro attori di LiberaMente e li ho messi ad abitare l'Atelier di DramaticaMente Teatro, proprio a significare questo passaggio, delicato (ma pur sempre passaggio) tra due porzioni dello stesso "bosco". Quello dove, se non ci perdiamo un poco, non sappiamo neanche che è importante "ritrovarsi". Artificio d'immagine, paradosso di realtà, se questa è posta nelle maglie del sogno. Ma dove finisce l'uno e comincia l'altro è stato il nostro segreto, privato e gruppale, durante il corso appena finito. Grazie ai due Atelier ed ai suoi attori. Director

mercoledì 23 febbraio 2011

Hypnodrama: La luna in cerca di casa

Aprile 2011, Il Teatro che cura, dal drama alla drammaterapia + Laboratorio: La luna in cerca di casa  -data in programmazione-

Hypnodrama: Morfeo, Ikelos e Fantasos. L’equilibrio psicosomatico è ora provocato, percorso da idee ed emozioni destoricizzate secondo la consueta logica formale, nel tentativo di conciliare quanto emerge di “asimmetrico”: induzione ad osservare la propria storia o un evento definito, a superare le resistenze inconsce. Reazioni emotive come lo stupore, la meraviglia, la commozione frantumano i pregiudizi verso la ricostruzione di una possibile nuova storia Non è il nostro passato ad essere corretto, ma l'esperienza emotiva archiviata in esso e congelata, come la assurda staticità del sintomo più che visibile, sottile "filo rosso" -afferma Langs- che riconduce al vissuto traumatico o, piuttosto, a quanto di esso è dato oggi "significativamente" dal nostro presente. director

mercoledì 9 febbraio 2011

Lutto a Roma e Teatro della Povertà nel Mondo: "abbi pietà di noi"


Pietà per loro e Pietà per noi, oltre il lutto, il coraggio. Casualmente fotografata
 a gennaio 2011, la apro oggi.

Esiste l'empatia di chi si guarda e si comprende e poi c'è quella "negata", nascosta e che si autoassolve solo perchè lo sguardo è riparato sotto un cavalcavia o in mezzo ad un canneto per quattro bambini. Nessuno sguardo è povero, e se non ci si credesse c'è a ricordarcelo proprio l'arte di un pittore o di uno scultore. Può esserci silenzio, ma mai mancanza di un senso. Ai miei attori. director

martedì 8 febbraio 2011

Il Teatro Drammaterapico

Spartaco Pelle, Blue Beard, Creative Drama & In-Out Theatre, dic 2010

domenica 6 febbraio 2011

l'Attore in Drammaterapia



 
 

Foto di Scena da "Blue Beard, To Want, To Need, To Be", dicembre 2010.
 Catia Savo e il director

Il Teatro Drammaterapico (CDIOT)

Catia Savo in Blue Beard, riduzione drammaterapica di Barba Blù
 di E. Gioacchini, Creative drama & In-Out Theatre, Roma, dicembre 2010

martedì 1 febbraio 2011

Cinema Therapy e Cinema-Drama Terapia, Disegni Sociali ed Artistici, di Plino Perilli

Plinio Perilli durante la conferenza introduttiva alla piece drammaterapica
"Il Fissatigre" di E. Gioacchini, 2007
 Il 3 febbraio a Roma, presso il Creative Drama & In-Out Theatre (CDIOT), sarà ospite Plinio Perilli con la presentazione del suo ultimo volume "Costruire lo Sguardo", vastissimo e intreccaito repertorio sui rapporti tra il Cinema e tutte le altre Arti. L'autore presenterà anche il Seminario di Cinema-Drama Terapia condotto dal direttore del CDIOT, E. Gioacchini.

@ P. Perilli

Che il Cinema, per la sua stessa natura, rituale e implosa, di piccolo-grande scenario o spettacolo di Psiche, sia dotato o possa essere comunque utilizzato, sollecitato per le sue forti virtù affabulanti, catartiche e dunque terapiche, apparve chiaro fin dai suoi primordi. E se le gags rutilanti delle prime comiche di Cretinetti e Max Linder, l’immenso Charlot, perfido e melanconico, lo stesso “lunare” Buster Keaton, i metafisici fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy… lenivano i traumi storici o esistenziali del primo approccio e ingresso nella Modernità (ma anche l’inferno della Grande Guerra, il purgatorio del dopoguerra), i grandi romanzieri per immagini carezzavano per virtù d’intreccio, dramma risolto, vicissitudine salvifica, la voglia e forza di progresso che l’Europa e il Mondo tutto chiedevano in fondo a ‘900.
Ma anche qui, c’è misura e misura. Ci furono insomma registi che restarono alla superficie dei problemi e dell’anima, ed altri che invece si tuffarono a picco fin dentro ai gangli del dissidio (sociale), del malessere (individuale) – insomma di quella che già Herr Nietzsche battezzava “la malattia chiamata uomo”…
Così Tempi moderni (1936), tanto per dire, non fu solo la parodia ma anche il lenimento scanzonato e insinuante contro le tare e le accelerazioni del fordismo industriale, e insomma dell’alienazione accelerata del nuovo mondo del lavoro…
Per virtù doppiamene artistica, gli autori devoti al surrealismo (Luis Buñuel su tutti) giunsero a lidi e plaghe dello spirito annodate e misteriche: corroboranti d’eccezione, diciamolo, per la macchina Cinema –sempre del resto alle prese con le più insondabili potenzialità dei “generi”… Si pensi al gran lavoro che un regista come Hitchcock ha svolto sui reconditi ardimenti o stordimenti di psiche… Veri e propri classici come Io ti salverò (1945) o Vertigo – La donna che visse due volte (1958), ne danno ampiamente conto. Non a caso la notissima sequenza del sogno che perseguita Gregory Peck – in Io ti salverò – fu “disegnata” da Salvator Dalì… Quando poi la Decima Musa trovò altri veri e propri geni come Bergman, Welles, e poi Kubrick – non poté più esserci alcun dubbio: il Cinema celava e proteggeva in sé una fortissima carica psicoterapica, immaginifica, di puro e sano transfert in nome di ogni pur bieco dramma da disciogliere, di ogni ennesima, commedia da rappresentare, e in cui forse addirittura poter noi stessi entrare…
Entrare, entrarci – entrar direttamente dentro allo schermo e a quelle stesse storie, come ci induce a fare in fondo l’esilarante, autocritico Woody Allen con la sue farse serissime e insieme scanzonate (Io e Annie, 1977; Manhattan, 1979; soprattutto, La rosa purpurea del Cairo, 1985)…
Da noi, intanto, Totò e Peppino, in qualche modo perfino Sordi e Manfredi, Tognazzi e Gassmann e tutti gli altri moschettieri della cosiddetta “commedia all’italiana”, facevano un gran lavoro se non altro sull’inconscio collettivo –per non dire sulle tare (talvolta anche sui pregi!) del “costume”…
Ma i gran registi delle contraddizioni, del malessere –della terapia dell’Io verso l’incomunicabile, spesso inaccettabile Altro da sé) furono Fellini e Antonioni– diversissimi ma anche assimilabili. La dolce vita e Otto e mezzo, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso… furono film che, in pieni anni ’60, raccontarono meglio dei sociologi o degli scienziati di psiche il travaglio di una società consumistica che col benessere del consumismo inoculava però, assieme, anche i veleni, lo stress, mille ansie indicibili.

Restiamo al fermento italiano: una nuova generazione (allora, di baldi giovani!), quella dei Marco Bellocchio e dei Bernardo Bertolucci –affidò al cinema certo un ruolo privilegiato, nella grande rivolta sociale (ma soprattutto psicologica, introiettata) succeduta e sospinta dal ’68… E anche qui, film come I pugni in tasca, Il conformista, Ultimo tango a Parigi, ebbero grandi meriti di sincerità e denudamento doveroso.
Pier Paolo Pasolini, intanto, continuava il suo gran lavoro combinatorio tra immagine e poesia, protesta e denuncia… Ma –udite udite!– affidate all’arte. Titoli come La ricotta (1963), Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968), lasciarono il segno.
E molti altri grandi numi tutelari continuavano a mettere in discussione –per fortuna– la nostra malcelata tranquillità o crisi d’ansia borghese, le nostre false sicurezze, le malattie meno diagnosticabili ma certo non meno infauste… Ingmar Bergman con –tra gli altri tanti capolavori – Il posto delle fragole, 1958; Sussurri e grida, 1972; Scene da un matrimonio, 1973; L’immagine allo specchio, 1976… Lo stesso Kurosawa migliore (quello ad esempio di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, 1970); Jacques Tati e il Playtime dell’alienazione (1967)…
Ad ogni generazione che sopravviene, il Cinema trova, gioca nuove chances di denudamento dell’Io, e cento approcci fantasiosamente psicoterapici: addirittura di laica, mimetica rappresentazione (come una volta fu per il teatro!) di tanto e tale malessere. Lo fece Wim Wenders con la sua Germania ancora piena di cicatrici e ferite storiche, insomma con gli angeli “umanati” de Il cielo sopra Berlino (1987)… Lo fece Pedro Almodóvar coi più belli dei suoi film – ed una Spagna che appena uscita dal franchismo e da una grigia dittatura anche della coscienza, ritrova desideri, fervori, perfino incubi nuovi: Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), Tutto su mia madre (2000), Parla con lei (2002)…
Con Quentin Tarantino –e il vizio/vezzo di un fin troppo statunitense, e più che estremo genere “splatter” –arriviamo all’ultimo gradino della discesa ad inferos di un moderno, modernissimo “male di vivere”… Una risultanza e una reazione violenta alla mera e cruda violenza che –per fortuna – sfocia come in un’autoparodia catartica, in un’accelerazione plasticata e giocata… Ed è in fondo proprio la tecnica (eventualmente la postmoderna contro-morale!) dell’accelerato genere “horror”… Le iene (1992), Pulp fiction (1994), restano per fortuna solo fiction… Più ce ne rendiamo conto, più le allontaniamo da noi, dal nostro habitat e dal nostro cuore…
Qualcosa da individuare e strappar via, come una neoplasìa, un tumore forse ancora benigno che la Società non può permettersi, né ammettere: se non proprio mettendolo in scena, calandolo e cauterizzandolo in Spettacolo, nel teatro perenne o subitaneo, trasparente o perfettamente calcato, sudato, dei nostri eventi d’esistenza: “Il Teatro: ecco la trappola” – fa dire Shakespeare ad Amleto – “in cui prenderò la coscienza del re”…
Nient’altro davvero è il buon Cinema che un inopinato, trasfigurante teatro per immagini. Terapia ed empatìa assolute, se lo spettatore/paziente vi si affida con la serenità di chi anche da fermo sa e vuole intraprendere dei lunghissimi viaggi interiori.

Testo consigliato: Plinio Perilli, Costruire lo Sguardo (Storia Sinestetica del Cinema in 40 grandi registi”), Gruppo Mancosu, Roma, 2009.
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