L'Atelier LiberaMente è uno spazio aperto, nella misura in cui va consolidando il suo pensiero e la sua pratica. Un blog permetterà di estendere l'area comunicativa, un "drama" allargato delle idee e delle competenze. Director, E. Gioacchini







sabato 29 maggio 2010

Drammaterapia: l'Universo che applaude!

@ Director

Desidero tornare a discutere con voi su quelle "macchine da applauso" a cui si è alluso qualche post fa, per fare riferimento al modo in cui lavora il processo drammaterapico e, nello specifico, come lo si vuole far lavoare nel nostro tipo di teatro (In-Out Theatre). Chiariamoci subito sul fatto che qualsiasi relazione, che sia svolta nell'ambito del luogo comune della realtà (quello che abitiamo ogni giorno) od in quello della rappresentazione, dunque del teatro, si svolge nel contesto di imput ed output di dati che non sempre sono disponibili alla coscienza, in poche parole di cui si è consapevoli. Variabili interne all'individuo, come le esperienze pregresse ed i ricordi, stati umorali e fisici ci influenzano e spesso determinano alla stessa stregua di variabili culturali e dinamiche relazionali. La nostra condotta, quindi, è il risultato di un algoritmo molto complesso, dove la matematica e l'algebra poco potrebbero arrivare a definire; mentre, d'altra parte, esistono modelli di comportamento assimilati dalla specie (quella umana nello specifico), trasmessi geneticamente o attraverso processi imitativi che gli individui attuano ed individuati dalla ricerca etologia e psicologica. Quest'ultimo elemento, l'aspetto imitativo (anch'esso dettato dagli istinti) è poi fondamentale per la specie umana, dove l'individuo, corredo genetico a parte, nasce assolutamente privo per diversi mesi di quel know-how, come invece avviene per tutti gli altri animali, e che, se non istruito dalle figure parentali e dal gruppo, finirebbe con il farci ben poco dei geni e degli istinti. La nostra storia evolutiva è tutta una cosa a parte, rispetto al mondo animale, anche se in quello si insertisce, fatto che comporta, ad esempio, che sopravviva l'individuo più "fortunato", piuttosto che il più dotato, spesso quello meno "etico" e non quello che esprima socialmente un sano istinto di difesa della specie. L'evoluzione, con la comparsa dell'autocoscienza, ha radicalmente cambiato le regole dell'adattamento. Ma fermiamoci qui, tanto è bastato per chiarire che viviamo costantemente immersi un un universo di messaggi e condizionamenti che poco hanno a che fare con quanto l'universo fisico aveva contemplato prima della nostra nascita (a parte la storia probabile di altri, infiniti universi nati e scomparsi prima di questo, forse contemporanei?).
Se nella realtà ci orizzontiamo, male o bene, costruendo le vicende della nostra vita (spesso quelle della vita degli altri, senza diventare mai soggetti, altre volte erigendoci a interpreti di quella altri), il teatro costituisce quella "meditazione" della vita che non può assolutamente tradire il senso che le diamo; può perfino "tradire" la sua rappresentazione esatta, ma questo deve avvenire sempre nella ricerca di senso che appunto definisco, in questo aspetto, "etica". Se lì, nel luogo della performance, "sta avvenendo qualcosa" che in realtà  non sta avvenendo (!), a dispetto di movimenti, parole, emozioni di un attore e di uno spettatore, questo non può non riconoscere in sè una responsabilità particolare: quella che rimanda alla possibilità insita che, nel "riprodurre", qualcosa cambi, possa prendere una strada diversa, un differente esito, o venga consumata l'energia conflittuale di una vicenda appena occorsa o di una tematica prennemente presente (abiurare la morte). Lo sa il drammaturgo che ha scritto il testo, lo conosce l'attore che ne sta interpretando la storia. In tale dinamica il teatro riscopre le ragioni profonde ed antiche per cui è nato, l'esigenza di "riprodurre" per eleborare nella coscienza che si dimena tra speranza e scoramento, paura ed gratificazione, quanto già accaduto, previsto, scongiurabile.
Se è questo che il teatro ripropone costantemente alla coscienza dell'uomo, allora comprendiamo meglio l'"atto di autopenetrazione" che Grotowsky "prescrive" all'attore; il dono di amore del se che si rappresenta al pubblico, la essenziale unicità di significato del luogo dove sono attore e spettatore insieme: l'ascolto e la visione del pensiero dell'uomo. E quanto può esservi di più sacro di questo, in mezzo a "crudeli" montagne che scivolano, che eruttano, altre che sprofondano, molte innevate, lussureggianti e "benevole", se è solo il nostro occho ad "osservarle" consapevole. E' mirabile pensare che l'universo sia riuscito a crearsi degli occhi con cui osservarsi, ma altrettanto terribile  riconoscere che esso non ne ha poi bisogno. Se quello dell'attore è anche un "sacerdozio" e la sua rappresentazione avviene nella celebrazione di una speciale "messa" (Grotowsky), il teatro è appunto "sacro".
Attore che, deposta la maschera, si presenta
 al pubblico per ricevere l’applauso.
 Frammento di cratere sovraddipinto,
da Taranto, 360-350 a.C.
Museo Archeologico, Taranto
In tale luogo, dove topos e logos si identificano, poichè è la realtà dell'uomo ad essere celebrata, si deve quindi sfuggire alla celebrazione di quel moto d'animo che nell'applauso esprima la parte più convenzionale del sentimento di gratificazione; alludo alla posizione narcisistica ed istrionica del porsi al centro dello spettacolo, quasi credendo che il teatro possa vivere grazie alla tua interpretazione. E' il teatro che, in quell'aspetto del comportamento umano (la rappresentazione), fa vivere te e la tua gratitudine è un applauso al pubblico che ti ha prestato i suoi sensi e quel senso ineffabile e misterioso che è l'ascolto della propria anima. Ed allora vengano gli "applausi",  essenziale rito di uscita dalla "finzione", di passaggio tra l'immaginario e lo svegliarsi al qui è ora dell'essere seduto (lo spettatore) ed in piedi, denudato e vulnerabile, ma commosso, dell'attore. Nessuna macchina di applausi, dentro di noi e fuori di noi. Essa altrimenti spegnerebbe i fertili esiti di quel processo "In-Out" che trasmette costantemente immagini e suoni tra il nostro inconscio e la parte cosciente, ancorchè renderli intellegibili.La "drammaterapia" prende tutto questo e lo pone in un setting specifico che sposta dalla funzione sociale a quella individuale e del gruppo la sua potenza, per questo può sentire mortificata la sua possibilità "estetica", quella dell'allestimento e del costume, dell'apparato scenico. L'alito di un dio, in questo teatro scende sempre, anche al di fuori del "deus ex machina", se si è autentici e consapevoli di questo.

"Perciò è chiaro che l’uomo è un animale più socievole di qualsiasi ape e di qualsiasi altro animale che vive in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore; invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: esser l’unico ad aver nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e così via."
(Aristotele, Politica, in Politica e Costituzione di Atene di Aristotele, U.T.E.T., Torino, 1995, pp. 66-67)

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