L'Atelier LiberaMente è uno spazio aperto, nella misura in cui va consolidando il suo pensiero e la sua pratica. Un blog permetterà di estendere l'area comunicativa, un "drama" allargato delle idee e delle competenze. Director, E. Gioacchini







sabato 13 novembre 2010

DRAMMATERAPIA & FINZIONE


CDIOT, Director alla Introduzione
 di "The Things Go Wrong", riduzione
 drammaterapica  di E. Gioacchini
 de "Il Rinoceronte" di E. Ionesco, 2009
Nel lavoro con la drammaterapia ed ancora di più nel Creative Drama In-Out Theatre, l'attore, nell'incontro con la "finzione", sperimenta costantemente una difficoltà e parallelamente deve esercitare uno specifico impegno: è richiesto che la recitazione lo attraversi, modulandosi attraverso i suoi personaggi interni, nella maggior parte dei casi (certamente all'inizio del lavoro) sconosciuti. Qualsiasi sia la tecnica attoriale di insegnamento/addestramento, dunque il tipo di teatro, la finzione è certamente funzionale ad una buona recitazione; si lavora con essa e costituisce per l'attore il target principale nell'incontro con l'espressione della propria personalità artistica. Un percorso lungo, durissimo, appassionante, che quasi sempre, se riuscito, ad un certo punto della carriera, giunge quasi a fondersi con la persona e la sua identità, come accade per tutte le professioni che comportano un certo "lavoro interno".
Nel caso della drammaterapia, invece, vi è il costante rischio che la "recitazione" costituisca la peggiore "stampella" teatrale, un appoggio facile (quanto si è più dotati in essa) che si allea alle resistenze dell'interprete; che impedisce che il soggetto teatrale (la drammaturgia) affondi, come un bisturi, nell'espressioni più intime di lui, dunque che si "imbeva" sua anima, elicitando ombre e luci. Memoria della drammaturgia, uso della voce e del movimento, dovrebbero costituire, ad un determinato punto del percorso in drammaterapia, abilità a disposizione dell'interprete che non lo distraggano dal lavoro con il proprio Io più profondo, con quello del processo drammaterapico e della catarsi. Se questo è il punto di arrivo (e necessita di una attenta disciplina e pratica), nella realtà iniziale dello stesso percorso è invece proprio nell'empasse, spesso "drammatica", con le proprie difficoltà che si presta l'utile lettura di quanto non visibile ed evocabile e, come dicevo, maggiore è il rischio che l'allievo s'inganni con l'idea che fare una buona performance significhi aver fatto lavorare bene il processo drammaterapico. L'apparente paradosso è costituito dal compito di essere "veri" attraverso l'essere "finti": un labirinto di temute percezioni di sè, nuovi aspetti della propria personalità, disillusioni e dinamiche sconosciute tendono ad affacciarsi ed allora è confortante l'appoggio al testo, il suo studio letterale, il divieto interno a "sdoganare" risorse ed energie.

Foto di scena da The Things go Wrong,
riduzione drammaterapica dal "Il Rinoceronte"
di E. Jonesco, CDIOT 2009

Se quanto appena illustrato fa parte di quanto accade nel setting drammaterapico (sia clinico che orientato nel campo formativo/educativo), abbiamo proprio nel Creative Drama & In-Out Theatre la possibilità che questi pericolosi shortcuts verso la performance drammaterapica si attuino. Infatti, nella drammaterapia il fuoco è costantemente tenuto sul lavoro drammaterapico all'interno del processo specifico e questo permette una costante tenuta del registro del proprio coinvolgimento o tradimento, tra autodisciplina ed interventi del director. Nel teatro drammaterapico, invece, è proprio questo contestuale spostamento del lavoro dei laboratori anche nella direzione della piece finale che può costituire l'abbaglio dall'obiettivo principale: il lavoro con se stessi attraverso il rituale ristretto (il gruppo) e quello allargato (gli spettatori). La preparazione della performance davanti al pubblico fa ripiegare il narcisismo sulle dinamiche dell'"apparire", piuttosto che del funzionare attraverso il processo drammaterapico e le posizioni a cui è giunto. L'intenzione "etica" della drammaterapia rischia, in poche parole, di slittare in quella "estetica". Vale ricordare, a tal proposito, che anche la "piece drammaterapica" costituisce un grande laboratorio di drammaterapia, dove, al gruppo ristretto dei partecipanti, si aggiunge quello tipico del pubblico come nel teatro, la dimensione più volte ricordata dello "spettacolo" così come, per nostra adozione, l'intendeva Grotowsky. Ciò che differenzia poi il prodotto finale è che nel nostro contesto il lavoro di "preparazione e studio" è avvenuto attraverso la metodologia propria della drammaterapia e nel particolare coinvolgimento che si attua con il pubblico vi è l'importante riattualizzazione di quanto già lavorato nel gruppo ristretto ("rituale ampio"). 


Foto di scena da "Il Kamikaze, Edizione 2009, CDIOT
 

2 commenti:

  1. Da quello che leggo, non c'è possibilità nè di stare dalla parte del bravo "attore", nè dall'altra perchè sarebbe una fuga, l'unica possibilità che ho è essere lì assumendomi il rischio. Se ci sono, come in passato, si crea quel vuoto che elimina paure, pregiudizi, pubblico e magicamente sei solo ma con tutto il resto.Mentre scrivo mi è venuto in mente quel venerdì del "bambù", questa forse è la verità del teatro. Liberta

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  2. Una volta ho sentito dire da un maestro del teatro contemporaneo (Barba) che il bravo attore non è colui che recita la sua parte, ma colui che è presente, è nel momento. Il suo ruolo è contestualizzato.
    Paradossalmente, un attore senza tecnica che ha il coraggio di portare in scena l'Amleto sulle rovine di Sarajevo è un grande attore! Proprio come affermi tu, carissimo Libertà.

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