L'Atelier LiberaMente è uno spazio aperto, nella misura in cui va consolidando il suo pensiero e la sua pratica. Un blog permetterà di estendere l'area comunicativa, un "drama" allargato delle idee e delle competenze. Director, E. Gioacchini







lunedì 21 giugno 2010

Autoipnosi: se si decide di "vedere"...

Blue (Maria Pina Egidi), nella parte de "il Narratore",
da il Kamikaze,  CDIOT, aprile 2010
@ Blue


Il prototipo umanoide, denominato con il codice drammaterapia.bleu, stava immobile sotto il sole di mezzogiorno, nella spiaggia di Perissa, isola di Santorini, Grecia, e guardava davanti a sé un paesaggio affollato da manichini, nascosti sotto il simulacro di ombra che offrivano i consunti ombrelloni di paglia dello stabilimento. Nella testa, stralci di parole abbinate senza senso, brani tratti da libri o da canzoni, riesumati dall’archivio morto della sua caotica coscienza. “Mi fido di te” , “il viaggiatore viaggia solo”, “quel ramo del lago di Como”, “l’essenziale è invisibile agli occhi…”…..Ma forse non erano brandelli di letture rievocate o di brani ascoltati , erano dati immessi nell’operazione di data entry, che completava la realizzazione di androidi perfetti, efficienti ed efficaci, identici, ma non uguali agli esseri umani.
Androide senziente o umano imperfetto? Erano ricordi ed emozioni vere a guidare bleu o erano sofisticati programmi di simulazione esperienziale?
Non ricordava come era arrivata a quella metafora di “ultima spiaggia”, evidentemente c’era stato un salto spazio temporale causato dalla perturbazione magnetica delle tante onde energetiche di altri prototipi. Sapeva cosa doveva fare, e questo la turbava: la logica ferrea dei suoi circuiti neuronali le diceva che non si poteva fare “quella cosa” e questo non la aiutava a sapere se era l’umano o la macchina a deciderlo.
Guardò ancora il mare, e ne rimase delusa; perché spendere energie per raggiungere quei triangoli turchesi, nascosti alla sua vista dai manichini, dagli ombrelloni, dalle passerelle ? Perché affannarsi a raggiungere una patetica laguna , chiusa da scogli all’orizzonte?
Due prove di scatto sul posto la convinsero quasi che non ne valeva la pena, in fondo, sulla spiaggia, tra i manichini si stava benino, e il sole della quarta dimensione non era poi cattivo come quello dello spazio- tempo quotidiano che le lasciava dolorose piaghe sul delicatissimo rivestimento epidermico, frutto di millenni di evoluzione. O era il frutto di un sofisticato programma di progettazione?
Ma la vista di uno spruzzo di spuma e il leggero contatto con le sue gambe agirono da inibitori della suoi percorsi logico – razionali e sentì una larvata voglia di osservare da vicino quei riccioli bianchi che si alzavano dalla superficie dell’acqua.
E all’improvviso decise di “vedere”: vide quindi la spiaggia senza manichini e tutto il mare nella sua grandiosità. Le fu facile e gradito scattare, prendere la rincorsa, correre a passi lunghi sulla nuova spiaggia, tanto che volle riprovarlo ancora e ancora. Era bello sentire le sinapsi lavorare così efficientemente al passaggio dei neurotrasmettitori. Che miracolo la biochimica, pensò!
Miracolo? Pensare? Non sono cose per androidi!
Furono le conseguenze di queste parole a portarla nell’acqua che ora era blu, blu, blu come il suo codice identificativo. Il prototipo e il mare erano quindi sorelle, amiche, complici.
Quanto sono gradite queste parole, tanto a una femmina umana, quanto a un androide, serie cromosomica XX. HI THALASSA, il mare in greco è femmina. In francese, la mer, suona come “la madre”.
Poteva quindi tradirla quella distesa di blu?
Un movimento ascendente, dal basso verso l’alto, si fece sentire all’improvviso sotto i suoi piedi e la sorprese come un abbraccio inaspettato, come una bella notizia, come il risveglio del primo giorno di vacanza (ma che razza di ricordi le avevano instillato nella banca dati, i suoi progettisti? E se era umana, che vita poteva aver vissuto?).
Frugò tra i file più nascosti del suo disco fisso, e in una espansione di memoria, trovò la parola “caramello”. Nooooo, quello che aveva sotto i piedi non era caramello, vischioso e appiccicoso, molle , gelatinoso, schifoso come una medusa. Era una lastra dorata, sottile e resistente, era una enorme caramella di zucchero d’orzo, di quelle che , se ne vuoi sentire tutta l’insolita dolcezza, non puoi spezzarla con la forza bruta dei denti, ma devi lasciarla consumare in bocca.

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